Dopo il Bruto minore, Leopardi, nel gennaio 1822, scrisse la canzone Alla Primavera, o delle Favole antiche[1].
Di solito, per una tradizione antica che risale al De Sanctis, si è cercato quasi sempre di abbinare nello studio critico Bruto minore e Ultimo canto di Saffo da una parte, e dall’altra Alla Primavera e Inno ai Patriarchi, rompendo la precisa cronologia che dà viceversa quest’ordine: Bruto minore, Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi. Al De Sanctis e a tanti altri critici dopo di lui, infatti sembrò forte la somiglianza tra Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, sia per il taglio della poesia, impostata su personaggi storici, su monologhi ecc., sia per la congruità degli elementi che si trovano in entrambe le liriche; mentre Alla Primavera e Inno ai Patriarchi apparivano avvicinate soprattutto dal comune riferimento a una difesa o elogio della natura primitiva.
In realtà, dal Bruto minore all’Ultimo canto di Saffo c’è, come già accennato, un fortissimo scarto tra la posizione di eccesso del Bruto e la posizione tanto piú misurata, piú intima e piú profondamente poetica dell’Ultimo canto di Saffo.
La linea cronologica che intervalla fra queste due canzoni Alla Primavera, motiva molto meglio della collocazione ideale questo passaggio che sembrerebbe brusco. Alla Primavera parte infatti soprattutto dalla strofa quarta del Bruto, in cui si parlava della natura «Reina un tempo e Diva» (v. 55), e di un periodo lontano e fortunato in cui gli uomini vivevano secondo natura. Alla Primavera riprende e vuole consolidare la difesa che Leopardi fa anche del suo sistema filosofico della natura benevola e provvidenziale in parte messo in crisi dal Bruto. La posizione di Alla Primavera è infatti questa: seppure nell’epoca moderna (e magari dall’epoca di Bruto) l’uomo non vive piú secondo natura, vi fu pure un’epoca in cui questa condizione si era verificata e in cui essa non era indifferente e ostile (come appariva in Bruto minore) ma partecipe, compagna e consolatrice, degli affanni degli uomini; sicché essa stessa in quel mitico passato aveva avuto effettiva vitalità: «Vissero i fiori e l’erbe, / vissero i boschi un dí» (vv. 39-40).
D’altra parte è proprio da questa difesa della natura e dal vagheggiamento poetico della bella, vaga natura, espresso in Alla Primavera, che l’Ultimo canto di Saffo ritrae una posizione di intreccio tra il vagheggiamento della natura bella e insieme il senso della estraneità di Saffo alla natura, il senso della indifferenza; ne nascerà un tono di poesia indubbiamente piú ricco: di protesta, ma insieme di tenerezza, di toni affettuosi, capaci anche di sostenere un certo tipo di paesaggio che non in tutto coincide con quello scabro, squallido del Bruto minore. E anche per quanto riguarda la stessa forma poetica, evidentemente la poesia tanto piú misurata e in qualche modo tanto piú intima dell’Ultimo canto di Saffo ha tratto anche un conforto dalle lezioni di una poesia come quella Alla Primavera, tanto piú capace di eleganza, di tenerezza non solo di toni, ma anche di linguaggio, che si discosta fortemente dal Bruto minore.
Sicché il passaggio tra queste due canzoni, Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, che pur hanno una loro interna continuità, risulta meglio compreso attraverso l’esame della canzone Alla Primavera.
La canzone Alla Primavera (scritta in dodici giorni nel gennaio 1822 e quindi molto vicina nel tempo al Bruto minore) trae, come si è accennato, il suo spunto proprio dalla strofa quarta del Bruto dove è posta una distinzione tra l’epoca di Bruto, in cui prevalgono la ragione e la disillusione storica, e un’epoca primitiva in cui la natura era «Reina» e «Diva».
Una dichiarazione che, in realtà, nel corso di quella impetuosa canzone, veniva travolta, perché è evidente che quando in essa il poeta parla degli uomini come dell’«abbietta parte [...] delle cose» (vv. 101-102) e della natura indifferente ai dolori umani («Né scolorò le stelle umana cura», v. 105), enuncia una specie di verità di carattere piú generale, che sembra superare quella distinzione tra il tempo della natura e quello degli uomini alienati da essa, che piú tardi chiamerà il tempo della seconda natura artificiosa.
È proprio dalla sensazione stessa di avere in qualche modo travolto certi elementi distintivi che erano tipici del suo sistema in questo periodo, che il Leopardi può essere stato indotto a concepire la canzone Alla Primavera. Il nucleo tematico della lirica può essere, parafrasando le parole del poeta, cosí definito: la vita che gli antichi immaginavano in tutte le cose di questa terra, con l’allontanamento degli uomini dalla natura e col crescere della ragione venne annullata.
Si potrebbe quindi essere indotti a credere che il problema di questa canzone si inserisca, senza nessuna difficoltà e senza nessuna rottura, direttamente nel sistema leopardiano di questo periodo, nella distinzione cioè tra l’epoca della natura e quella della ragione. In realtà chi ripercorra nel fondo la struttura della lirica, noterà che essa si muove su di una problematica piú complessa e piú difficile, che comporta tutta un’impostazione dubitativa (i “se”, i “forse”, i “perché”), a cui corrisponde nello stesso linguaggio, nella stessa struttura della strofa, un andamento che va verso una disposizione strofica (strofe lunghe di 19 versi), metrica e linguistica estremamente slanciata, sinuosa, elegante, quasi preziosa e raffinata e in certo modo stilizzata, lontana dalla forma impetuosa e aggressiva del Bruto minore.
Lo spunto iniziale è la rianimazione operata dalla primavera, dopo l’inverno, nella vita della natura e degli animali, che penetra negli stessi uomini per quanto delusi, malinconici e tristi, e che tenta anche il gelido cuore del poeta, quasi a invitarlo a una ripresa.
La canzone viene poi svolgendosi in una iniziale domanda: «Vivi tu, vivi, o santa / Natura?» (vv. 20-21), che però non ha subito una risposta; la risposta è come elusa e rimandata.
Segue la rievocazione, in forme raffinate e di alta eleganza (che tra l’altro preparano le forme di quel capolavoro della fine del ’23, che è la canzone Alla sua donna), del mondo mitico antico, in cui la natura era animata e partecipe delle pene degli uomini.
Dopo questa rievocazione, Leopardi, attraverso un intrico assai delicato e sottile, torna al presente, come se dicesse: mentre una volta tutto viveva in accordo e senza sofferenza tra uomini animali e natura, nel tempo presente tutto ciò viene scomparendo.
Sicché la domanda iniziale lasciata a lungo in sospeso, si ripresenta solo alla fine della canzone, ma come di nuovo elusa da una risposta, che si cambia in una specie di preghiera, di invocazione che il poeta fa alla natura affinché essa dia ancora una certa animazione al suo stanco spirito deluso, e che anzi trova nel finale una restrizione che limita anche questa dubitosa presenza della natura a una presenza di spettatrice, ma non di consolatrice:
[...] se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno. (vv. 91-95)
Dunque, quello che poteva essere un problema abbastanza ridotto (se Leopardi avesse applicato meccanicamente lo schema del suo sistema dello Zibaldone), è in realtà in questa canzone costruito con una specie di rabesco problematico assai sottile, piú perplesso, piú stilizzato, quasi raffinato e prezioso, lievemente poetico e sommesso, quasi opposto a quello del Bruto minore, cui la stessa costruzione metrica, di ritmo, di linguaggio pertiene. Come, d’altra parte, è chiaramente provato dall’esame delle varianti delle quali il Leopardi, in una via opposta a quella del Bruto minore, ha scelto continuamente le frasi e le parole che piú spengevano il tono aggressivo e troppo violento.
Cosí, parlando di uno dei miti, a un precedente «disperato amplesso» il poeta preferisce «doloroso amplesso» (v. 54)[2], cioè la forma piú misurata; oppure, per le stesse forme del paesaggio che Leopardi evoca, all’inizio, parlando di quelle ombre delle nubi che invadono il cielo durante l’inverno e nella primavera vengono come a essere spazzate dal vento di Zefiro (sicché la loro ombra si cala a poco a poco sulla vallata liberando il cielo), inizialmente il poeta aveva adoperato le forme «la fosca ombra» «la cieca ombra», poi dirà semplicemente «la grave ombra» (v. 4), preferendo una forma piú neutra, piú sommessa, che evita il colore piú risentito e piú fosco; oppure, ancora, nella seconda strofa, dove si parla del pastorello che sentiva, nelle ore del meriggio, il canto degli agresti Pani, mentre inizialmente il poeta aveva parlato del «meriggio cocente», con una tinta piú forte e piú esuberante, nella stesura definitiva dirà «all’ombre / meridiane incerte» (vv. 28-29), cioè sposterà l’immagine verso qualche cosa di piú vago, di piú indefinito, togliendo quanto c’era di troppo brusco, di troppo colorito nell’immagine iniziale.
Questa è la direzione in cui è costruita la canzone, che non può quindi ridursi, come parve al De Sanctis, a una poesia costruita «con animo di erudito», o come parve poi al Russo, che riprese in parte il giudizio desanctisiano, a una «filologica rievocazione degli antichi miti».
Il centro di questa canzone non è infatti la frigidezza erudita, ma un tono di misurato fervore: questo tono piú sommesso, le sue forme piú stilizzate ed eleganti, il suo linguaggio che cerca di privarsi di tutto ciò che può apparire forte e perentorio nascono proprio dalla stessa posizione centrale problematica e dubitativa della canzone, dai suoi toni piú pensosi, meno ardenti, che si vietano una traduzione, che sarebbe incoerente, in forme di fervore troppo aperto, come prova la stessa affermazione dei miti «Vissero i fiori e l’erbe, / vissero i boschi un dí» (vv. 39-40), un’affermazione presentata in termini dubitativi, di lieve vagheggiamento, piú che di ardente professione di fede o di forza e di violenza quale aveva avuto la protesta del Bruto minore.
Toni sommessi e meno sicuri che rimandano fra l’altro alla posizione di Alla Primavera entro questo ciclo di canzoni; posizione di difesa del sistema della santità della natura, che tuttavia resta in qualche modo corroso dalla stessa affermazione perplessa che nel passato tra uomo e natura c’è stata corrispondenza di vita.
La canzone è costituita da cinque strofe di diciannove versi, che superano quindi la misura strofica delle canzoni precedenti oscillanti fra i tredici e i quindici; questa lunghezza, tutt’altro che fatto esterno, è il corrispettivo della ricerca di forme sinuose, articolate in forme dubitative (i “perché”, i “forse”, i “se”), in movimenti allungati e raffinati con spunti di melodia.
La prima strofa parte dal ritorno vivificante della primavera per giungere ad anticipare la domanda che aprirà la seconda strofa:
Perché i celesti danni
ristori il sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
pruine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di Febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? ed anco,
primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara
nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? (vv. 1-19)
La lirica si muove naturalmente su quel piano di moderata difficoltà di cui il Leopardi parlava un po’ per tutte queste canzoni, ma qui la ricerca del pellegrino, del raro, dell’arduo è assai spostata rispetto al Bruto minore; non va tanto verso uno stile energico e perentorio (secondo il richiamo allo stile oraziano), ma è piuttosto rivolta verso forme di un pellegrino elegante, e la stessa difficoltà è incentivo piuttosto di rarità e quasi di alta preziosità, che non di energia e di perentorietà.
Dice il poeta: per il fatto che il sole venga a riparare ai danni compiuti dal cielo invernale, per il fatto che le aure insalubri dell’inverno vengano avvivate dal soffio del vento primaverile di Zefiro, sicché la grave ombra delle nubi, che prima campeggiava e oscurava il cielo, viene lentamente a scendere, spazzata e fugata dal vento verso la valle; e per il fatto che gli uccelli affidino («Credano» latinismo) il loro petto inerme gioiosamente al vento; e per il fatto che la luce del giorno venga a ridestare nelle belve, negli animali, mentre vivono nei boschi, penetrati dalla luce e tra le brine invernali sciolte dai primi caldi raggi del sole primaverile, un nuovo desiderio d’amore, una nuova speranza; per il fatto che la primavera è venuta a riportare la vita nella natura e negli animali, forse che anche per gli uomini, per le stanche menti umane, sepolte nel dolore, effettivamente ritorna la bella età delle illusioni consunte innanzi tempo dalla sciagura e dall’oscura fiaccola della ragione? forse che per il misero uomo non sono ottenebrati e spenti in eterno i raggi del sole? e forse che, o primavera voce della natura, tu hai anche la forza d’ispirare e penetrare questo mio gelido cuore che nella stessa gioventú ancora fiorente già apprende, vive un’età di vecchiaia amara?
La costruzione di questa strofa, svolta in un arduo lungo giro sintattico, è sempre sottilmente difficile, e certo la parola “sottile” pertiene assai a questa canzone legata com’è a un tema complesso e dubitativo esso stesso sottile, non cosí immediatamente chiaro come quello del Bruto minore; ma anche piena di schietta sensibilità come nella impressione del paesaggio, di questo cielo che da invernale si fa primaverile quando la sua cappa di piombo viene fugata in nubi viste non in sé e per sé ma attraverso il riflesso nell’ombra, con una prospettiva allusiva cosí lontana dalle forme dirette e perentorie del Bruto minore.
Si noti anche l’estrema eleganza dei versi finali, con spunti piú melodici, ma non di una melodia piena, espansa, ma anch’essa raffinata e assai nuova rispetto ai moduli del Bruto minore, da cui questa canzone tanto fortemente viene distaccandosi.
Al culmine di questi primi interrogativi si colloca poi la domanda piú ansiosa, ma in qualche modo misurata che apre la seconda strofa. È certo la domanda fondamentale di questa canzone: se, cioè, ancora la natura possa vivere, non di vita autonoma, ma in corrispondenza con l’uomo, se alle domande, dell’uomo essa sia ancora capace di rispondere:
Vivi tu, vivi, o santa
natura? vivi e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
furo i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udí lungo le ripe; e tremar l’onda
vide, e stupí, che non palese al guardo
la faretrata Diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia. (vv. 20-38)
Il poeta chiede: vivi ancora, o santa natura?, vivi?, e l’orecchio ormai non piú abituato a questo colloquio, può ancora ricevere il suono della tua voce materna? Ma la domanda viene come elusa, o, se si vuole, il Leopardi con la rievocazione che segue è come se rispondesse dicendo, in modi estremamente sottili ed elusivi: la natura viveva una volta. Alla domanda Leopardi semmai cercherà di rispondere, e anche qui in forme assai elusive, alla fine della canzone; in questo momento egli sembra piuttosto avviare un altro discorso, indiretto.
La strofa, cioè, non rispondendo immediatamente alla domanda sulla vita attuale della natura, viene prospettando una rievocazione degli antichi miti, che non è certo la semplice rievocazione del filologo e dell’erudito, ma implica anche un moderato fervore che alimenta questi antichi miti tutti sempre pertinenti al rapporto uomo-natura, non mai oziosi nel senso montiano della parola.
Dice il poeta: in lontana età, i rivi e le fonti furono albergo o specchio di candide ninfe; una rievocazione confortata da un vagheggiamento rivelato dalle parole «Placido albergo»; un’adesione compiaciuta a questo periodo lontano della vita umana, in cui la natura era animata, aveva un rapporto, diceva qualcosa agli uomini, non era deserta, muta come nei tempi moderni. Il poeta rimanda sempre piú indietro l’età felice delle illusioni, ora non piú l’epoca della fervente libertà latina, ma un’epoca addirittura mitica.
«Arcane danze [...] gioghi / scossero»: i gioghi precipitosi e scoscesi e le selve impraticabili erano state come mosse e scosse da arcane, misteriose danze dei piedi immortali degli dei che scendevano tra gli uomini nell’età mitica; quelle selve che sono oggi solo un solitario nido dei venti, e il pastorello che conduceva alle ombre incerte del meriggio, al fiorito margine dei fiumi le sue sitibonde agnelle sentí risuonare l’arguto carme degli dei lungo le rive e vide tremare l’onda.
L’immaginazione viene sempre piú immergendosi in questa sensibile, poetica rievocazione, in questo mondo lontano, con movimenti di sottile e squisita eleganza e sensibilità, come quest’ultimo del pastorello (il primitivo che vede tremare l’onda e non vede la causa di questo tremore).
Tipico di questa canzone dall’incantevole disegno è un procedimento indiretto e allusivo nel suo insieme tenue, ma che nello svolgimento del Leopardi ha pure avuto una sua importanza, permettendogli di esprimere certi aspetti piú squisiti della sua sensibilità e del suo stesso linguaggio letterario: prima, un paesaggio in cui piú che le nubi, si vede l’ombra di esse; qui, piú che lo spettacolo diretto dell’immergersi nel bagno della dea Diana, che viene a detergersi delle tracce della caccia secondo un modulo comune della poesia neoclassica, il tremore dell’onda, questo fatto indiretto e piú misterioso.
La terza strofa viene ancora a svolgere il motivo della vita della natura in rapporto all’uomo nell’epoca mitica e il Leopardi trova la forza di prospettare piú chiaramente non la risposta decisa, ma in qualche modo l’affermazione della sua fede in una primitiva vita di scambio tra uomo e natura:
Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dí. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fur dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credé la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il sole. (vv. 39-57)
La strofa è avviata nella forma di questa professione di fede in un lontano passato: ci fu questa vita dei boschi, dei fiori, delle erbe, perché «le molli aure, le nubi» e il sole («la titania lampa»), furono allora «Conscie» dell’umana gente. E «Conscie» è una parola chiave di questo rapporto (ebbero consapevolezza degli uomini, cioè non furono indifferenti, dialogarono con essi, ebbero una posizione di rapporto, di partecipazione alle loro pene).
Segue tutta una serie di immagini che vanno da forme piú direttamente poetiche, a forme anche eccessivamente preziose: il limite di questa poesia è, se si vuole, l’eccessiva raffinatezza, quasi un eccessivo compiacimento di questa eleganza, di questo rivivere miti cosí preziosi e suggestivi.
«[...] allor che ignuda [...] immaginò»: quando o luna, nuda e splendente, il viaggiatore seguendo nella notte deserta per le piagge e per i colli, con i suoi occhi attenti il tuo percorso celeste, t’immaginò compagna al suo viaggio e preoccupata dei mortali. La scelta è sempre per parole prive di ogni aggressività, smussate, e senza accenti troppo forti.
«Che se [...] consorzi»: in quell’epoca beata e lontana, se qualcuno fuggendo le vie e le vergogne degli impuri cittadini consorzi, abbracciò nei boschi gl’ispidi tronchi, quasi cercando qualcosa di piú schietto e di piú autentico e di piú facilmente partecipe alle sue pene, egli poté credere di aver contatto con esseri vivi, non con tronchi muti e sordi, ma animati da una viva fiamma vitale, che agitava le fibre vegetali senza sangue, e poté credere che abbracciando le foglie dell’alloro, in esse palpitasse segretamente Dafne, e che nel mandorlo alitasse la mesta Fillide, o che nel pioppo le Eliadi, figlie di Climene, piangessero la morte di Fetonte.
È tutta una trama sottile di miti evocati con un gusto di superiore compiacimento, che in questo caso giunge veramente a forme preziose e troppo squisite negli stessi suoni: «Dafne o la mesta Filli, o di Climene [...] in Eridano il sole».
La quarta strofa continua questa evocazione di miti tutti legati alla corrispondenza fra natura e uomo:
Né dell’umano affanno
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferír mentre le vostre
paurose latebre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno. (vv. 58-76)
In quell’età felice neppure le rigide balze furono colpite dai lamenti dei miseri mortali senza che ciò le turbasse.
Come si è ricordato nel commento al Bruto minore, Leopardi ai versi «abbietta parte / siam delle cose», aveva prima esitato sulla parola «negletta» scegliendo poi la parola piú perentoria, piú accusatrice «abbietta»: qui, in questo clima di fervore piú misurato, ritorna, e assai piú coerentemente, il “negletto”.
Segue la bellissima rievocazione dell’eco, che non era un semplice inganno dei venti, un fatto di suoni, di rumori, ma piuttosto il lamento di una misera ninfa che si era tramutata, a causa del suo amore infelice per Narciso, in voce errante per le valli e che quindi esperta, per propria esperienza, delle sventure umane, poteva, attraverso il suo suono, rievocarle non freddamente, parteciparvi, dar loro quasi una risposta.
«E te d’umani [...] esperto»: e cosí l’usignolo poteva esprimere nel suo canto l’affanno degli uomini, essendo prima stato Filomela, una donna trasformata in usignolo dopo l’oltraggio patito da Tereo, e quindi esperto esso stesso dei dolori umani; si osservi come entro le direzioni di questa poesia venga anche pronunciandosi certa tendenza di canto di melodia, che fa pensare a conquiste tanto piú tarde e mature della poesia leopardiana, degli anni ’28-30, cioè ai grandi canti pisano-recanatesi.
«Antichi danni e scellerato scorno»: sicché lo stesso giorno, lo stesso sole venne a partecipare a queste sventure umane e divenne pallido d’ira e di pietà. Questa frase, la piú vicina a una del Bruto minore («Né scolorò le stelle umana cura»), in realtà se ne distingue assai, coerentemente al diversissimo tono di questa canzone: infatti la stessa forma di colore «pallido il giorno» (il sole che diviene pallido di ira e di pietà) non è il violento e iperbolico senso dello scolorare delle stelle.
L’ultima strofa, che al solito, con estrema sottigliezza, viene raccordando i motivi fondamentali di questa tutt’altro che facile poesia, parte proprio dall’ultima immagine della strofa precedente, dall’usignolo che una volta, come l’eco, esprimeva sentimenti simili a quelli dell’uomo in virtú della sua personale precedente esperienza umana, per arrivare però a dissociare, all’interno di un’immagine poetica, l’usignolo come era da come è ora, l’usignolo dall’uomo e quindi l’uomo dalla natura. Sicché poi, per la evidente mancanza di sicurezza dell’esistenza di questo rapporto, il Leopardi tenterà una specie di preghiera, una specie d’invocazione assurda, poi a sua volta subito, come si è già anticipato, incrinata dalla restrizione finale, cioè dal dubbio che la natura possa ancora essere, se non pietosa (cosa ormai direttamente esclusa) almeno spettatrice:
Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro
le meste anime educa;
tu le cure infelici e i fati indegni
tu de’ mortali ascolta,
vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno. (vv. 77-95)
Dice il Leopardi: ma il tuo genere, la tua razza, quella degli animali non è in realtà veramente imparentata a quella degli uomini, quel tuo canto cosí delizioso non è formato dal dolore (si noti qui il tema poi usufruito nel Passero solitario), sicché per noi uomini tu sei adesso nascosto nella valle bruna, sei per noi molto meno caro di quello che eri una volta quando tu, provenendo da una vita umana, la vita di Filomela, partecipe della colpevolezza dell’uomo, riflettevi la condizione umana; ora tu non dai nessun segno di questa consanguineità.
«[...] poscia che vote / son le stanze d’Olimpo»: poiché le stanze d’Olimpo sono vuote degli dei, poiché adesso il tuono indifferentemente, ciecamente colpisce, o perlomeno impaurisce tutti gli uomini, siano essi iniqui o innocenti.
«[...] poi ch’estrano / il suol nativo»: e poiché lo stesso suolo nativo è diventato estraneo, indifferente alla sorte degli uomini che vi nascono, e inconsapevole dei propri figli, fa crescere le anime alla mestizia («Le meste anime educa», un’espressione di alta finezza poetica) e non piú a quel contatto vivificante con la natura, che era anche esaltazione di vitalità.
«Tu le cure [...] ascolta, / vaga natura»: dopo aver detto che la vita attuale degli uomini è priva ormai di quella consolazione dei miti, che è il vivo sogno della partecipazione della natura alla sorte degli uomini, il Leopardi improvvisamente, con un movimento logicamente anche non facile, muove questa specie di preghiera alla natura, che in questo contesto ha qualcosa che sfiora l’assurdo; tu, o natura, egli dice, ascolta gli affanni infelici e i fati degni dei mortali e rendi al mio spirito la fiamma antica della gioventú e delle illusioni.
La preghiera, come si è detto, viene subito ulteriormente ridotta da questo “se”, da questo dubbio finale, «se tu pur vivi [...] ma spettatrice almeno»: dato pure che tu viva, che una qualsiasi cosa nel cielo o nell’aprica terra, o nella profondità del mare si trovi che possa essere, se non pietosa (il che è escluso), almeno spettatrice dei nostri affanni.
Cosí, la canzone si conclude con questa restrizione di «almeno»: si potrebbe dire che Leopardi, nella difficile impresa di una certa difesa della possibilità di rapporto tra natura e uomo, sia qui, in realtà venuto sempre piú logorando tale possibilità e sempre piú intimamente corrodendola.
Su questa base si può trovare la genesi dell’Ultimo canto di Saffo, cioè della canzone che viene a portare la poesia del ciclo ’21-22 alle sue mete indubbiamente piú alte.
L’Ultimo canto di Saffo[3] venne scritto nel maggio del 1822 («opera di sette giorni», come annotò Leopardi), dopo un intervallo di tempo maggiore di quello che intercorse tra le due canzoni precedenti: come una certa pausa nella creazione poetica, dal gennaio al maggio del 1822, un periodo in cui sembra che il poeta abbia raccolto piú densamente, piú intimamente certi suoi motivi, dando poi a questa sua lirica un carattere piú profondo e piú intenso rispetto alle poesie precedenti.
L’Ultimo canto di Saffo riprende certi grandi temi del Bruto minore, perché questa è certamente una canzone carica anch’essa di denuncia e di protesta e anzi costituisce in tale direzione come un ulteriore passo in avanti. Perché se il Bruto minore impostava la protesta e addirittura l’accusa contro il fato, Giove, gli dei, l’Ultimo canto di Saffo viene a portare in avanti questi temi in forme che, pur meno impetuose e violente (tutto sommato anche nel linguaggio ci sarà indubbiamente una scelta per forme che non hanno la violenza del Bruto minore), esprimono però una posizione piú matura e al fondo piú drammatica.
Nell’Ultimo canto di Saffo la denuncia e la protesta sono diventate piú ferme, in qualche modo piú terribili, anche perché nel Bruto minore il personaggio di Bruto ha piú l’aspetto di un vinto-vincitore, ha un’energia virile e individualistico-eroica meno adatta a suggerire la sorte di tutti gli uomini; è figura che meno chiede quella tinta di pietà che troveremo in Saffo. La figura di Saffo piú delicata, piú indifesa diventa profondamente portatrice anche di una specie di verità piú generale. L’eccezionalità stessa del caso (cioè la donna brutta, la sproporzione tra la mancanza di bellezza e l’ingegno e la virtú) collabora a questa maggiore possibilità di fare del personaggio stesso il portavoce dell’umanità misera e infelice, innocente e perseguitata dal fatto crudele. Lo stesso “noi” con cui Saffo parla inizialmente sarà un pluralis maiestatis (il noi del personaggio eccezionale e storico), ma a poco a poco questo “noi” si confonderà con il “noi” di tutti gli uomini e Saffo esprimerà nel suo dolore un sentimento piú generale.
Per ulteriormente comprendere la genesi di questo grande canto occorre ovviamente aver ben presente tutto il percorso della poesia del Leopardi e la maturazione del suo pensiero quale lo abbiamo già a lungo ricostruito nello studio delle precedenti canzoni del ciclo ’21-22 e dello Zibaldone.
In particolare, occorre però soffermarsi su alcuni punti piú precisi; anzitutto, per la situazione particolare della Saffo leopardiana, bisognerà rifarsi a un preciso pensiero dello Zibaldone del 5 marzo 1821:
L’uomo d’immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l’amante escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell’amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch’egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l’amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto piú acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli in somma si vede e conosce escluso senza speranza, e non partecipe dei favori di quella divinità che [...] gli è [...] cosí presente cosí vicina, ch’egli la sente come dentro se stesso, e vi s’immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura. [718-720][4]
Questo pensiero (seppure nato in un periodo di piú ardente fede nella natura) colloca assai bene l’origine particolare della situazione di Saffo (con tutte le implicite allusioni personali del Leopardi) nel singolare rapporto di tensione verso la natura e di ripulsa da parte di questa nei confronti di una persona ricca di grandi qualità umane e priva della bellezza fisica, quella bellezza che, tra l’altro, il Leopardi considerava in tutto il suo pregio (specie nella zona dello Zibaldone 1821), anche se ora ne vedeva meglio l’aspetto di “sembianze”, ben minori rispetto all’altezza dell’animo. E la stessa precisa allusione amorosa («dispregiata amante», v. 25) si concreta nella situazione del personaggio di Saffo (tutt’altro che prestanome pretestuoso e vago), che egli riprendeva dalla versione ovidiana (la Saffo non bella e suicida per un amore non corrisposto), da alcuni spunti di Madame de Staël (fra la Delphine e la Corinne), e soprattutto da quel romanzo di ultimo Settecento di Alessandro Verri, Le avventure di Saffo, che è certo la base piú ravvicinata e variamente stimolante della Saffo leopardiana.
Direttamente il Leopardi cita solo Ovidio e la Staël[5], ma è chiaro che i maggiori suggerimenti gli vennero dal romanzo del Verri, alla cui impostazione spiritualistica e cattolicheggiante d’altra parte si contrappose decisamente e significativamente[6].
Dal romanzo verriano Leopardi prese infatti moltissimi suggerimenti di paesaggio, di impostazione del personaggio nel suo rapporto con la natura e persino di precisi elementi di linguaggio: si pensi, per l’inizio del canto, a questo passo del Verri: «Placida è tutta la natura [...] tranquillo è il cielo [...] Sorgea la splendente luna, e già apparia l’ampio di lei volto dietro le foglie di un denso albero [...] Ma se placida era la notte, ognor piú cresceva il tumulto nell’animo di Saffo»[7]. E per il motivo delle “sembianze” e della crudeltà dei numi, per il motivo di Faone e per il finale, si pensi a questi altri passi verriani: «Nume crudel [...] potevi tu immaginare piú barbara discordia che il negarmi gli allettamenti del volto ed empirmi il cuore di cosí infruttuosi desideri [...] Sii pur felice ne’ tuoi amori»[8]; «si mesce ad ogni presente dolcezza, il dubbio che la fortuna cangi, l’immoderato desiderio di non probabili acquisti, il timore di mali corporei, gli affanni volontari dell’animo, e per fine il piú crudele persecutore di ogni attuale godimento, il timido pensiero della morte [...] tartaro caliginoso»[9]. Ma la fondamentale impostazione spiritualistica del Verri, che considera la morte di Saffo come opera scellerata dovuta alla sua incredulità negli dei[10], serví certo da base di attrito e di stimolante contrasto per il Leopardi.
Il quale capovolse la interpretazione della morte suicida di Saffo in una forma di suprema protesta dell’innocente vittima della persecuzione della natura, del fato e degli dei (che l’avevano fatta nascere grande di animo e brutta di corpo): protesta e denuncia che nella confluenza attiva di altri motivi della poesia di ultimo Settecento si alimentavano anche della sublime lezione della Mirra alfieriana, vittima innocente della persecuzione divina che impresse nel suo animo innocente la scellerata passione per il padre; della Mirra ritornano persino echi di linguaggio in precisi momenti del canto leopardiano, come là dove Saffo parla del suo vano amore disperato per Faone («E tu cui lungo / amore indarno, e lunga fede, e vano / d’implacato desio furor mi strinse», vv. 58-60), riecheggiando il piú sintetico verso alfieriano: «Io disperatamente amo, ed indarno» (At. v, sc. 2, v. 103).
Ecco: l’incontro con la Saffo del Verri e con la Mirra dell’Alfieri aiuta a capire meglio la scelta leopardiana di un’impostazione protestataria, atea, la sua forza di rottura di ogni concezione di pietas religiosa e provvidenzialistica.
Al potente nucleo drammatico del canto corrisponde una nuova originalità di struttura, di linguaggio, di metrica, che potremo meglio considerare nella rilettura della canzone. Basti notare, in anticipo, il taglio della canzone (tutto lo svolgimento drammatico entro la parlata di Saffo); la sicurezza possente del suo crescere di poesia; la novità del linguaggio che riassorbe potentemente tenerezza e vigore, salendo, specie nel finale, a forme di sobrietà e di sintesi estrema; la sintassi, pur ardua, che si fa meno complicata e ravvolta; la stessa novità metrica: quattro strofe di 18 versi tutti endecasillabi sciolti tranne il settenario al penultimo posto e in rima baciata (le sole rime della strofa) con l’ultimo endecasillabo. Metrica che corrisponde alla compattezza severa del discorso poetico e che pure tiene alla misura di strofe vere e proprie, suggellate dal piú musicale accordo finale rimato e formato del settenario e dell’endecasillabo. E che cosí corrisponde alla volontà leopardiana di inventare strutture metriche nuove, coerenti alle singole poesie, sempre piú lontane dalle forme liriche tradizionali, convenzionali.
Il Leopardi sembra veramente aprirsi piú direttamente la strada verso un linguaggio piú maturo, che porterà, con tutto il rifiuto sempre persistente della via piú tipicamente neoclassica, verso forme sobrie, caste, essenziali in cui il “vago” e il “reale” vengono a fondersi profondamente.
Rileggiamo la canzone ripercorrendola nelle sue quattro strofe. La prima (scartata la soluzione del Bruto di una preliminare delineazione esterna della scena) imposta il colloquio di Saffo con la natura, con gli aspetti del paesaggio, in una forma di intenso vagheggiamento, in cui ritornano certi aggettivi già adoperati nel Bruto minore, privati però dell’accezione piú immediatamente aggressiva che avevano in quella canzone.
«Placida notte» ricorda appunto la “placida luna” («tu sí placida sei?»), «la tacita selva» può ricordare il «Tacita verserai». Queste espressioni, che nel Bruto minore erano adoperate come espressioni della protesta contro la sordità della natura, qui invece sono adoperate in una forma di vagheggiamento della sua bellezza, della sua purezza, della sua castità, sottolineata anche dai profondi aggettivi iniziali. Tutto ciò però porta immediatamente a una dissociazione del vagheggiamento iniziale del bel paesaggio e della placida notte dall’effettivo stato d’animo disperato di Saffo:
Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care
mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove a noi sul capo,
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda. (vv. 1-18)
La strofa è tutta chiusa tra paesaggio e paesaggio, tra quello casto e vagheggiato nella sua purezza, con cui si apre, e quello tempestoso e adatto ai «disperati affetti», con cui si chiude.
Spesso la critica ha insistito sull’altezza dell’iniziale paesaggio notturno, rappresentato con squisita e profonda sensibilità (anche in questa specie d’incontro tra il raggio della luna cadente e la luce della stella Venere che sorge), e quindi con tutto un alto acquisto poetico dell’accresciuta sensibilità leopardiana entro il ciclo delle canzoni del ’21-22, acquisto che può aver avuto appoggi, come si è già detto, anche nelle forme piú raffinate, squisite, fortemente sensibili della canzone Alla Primavera.
Ma in questa prima delineazione del paesaggio vagheggiato nella sua purezza, essenziale è che il «verecondo raggio / della cadente luna», questo raggio pudico e casto subito viene riportato allo stato d’animo di Saffo. Va dunque evitato il facile errore in cui, nell’epoca della valutazione della poesia leopardiana unicamente idillica, era piú facile cadere: va evitato il pericolo di considerare questa apertura come se non avesse poi nessun rapporto effettivo, dinamico con il resto della canzone, come se fosse il segno di quella unica vocazione idillica contemplativa del Leopardi, che troverebbe qui un alto esito e poi verrebbe come a infrangersi nel resto della canzone ragionativo o troppo appassionato e disperato.
È evidente, con un procedimento che può richiamarci all’inizio della Sera del dí di festa, che questa contemplazione affettuosa della bella natura, del paesaggio notturno o crepuscolare da parte di Saffo è giustificata poeticamente proprio nel suo legame di contrasto e tanto piú vagheggiata quanto piú Saffo la sente ormai lontana dal suo stato presente, quanto la sente piuttosto come parte delle sue illusioni giovanili, quando essa non aveva ancora fatto la dura esperienza della vita, quando credeva ancora che non si trattasse semplicemente di “dilettose sembianze” (parola estremamente importante in questa canzone), ma di realtà; mentre adesso questa bella natura è già qualificata appunto come “sembianze dilettose”, care, ma sostanzialmente “sembianze”.
Questa parola è molto importante nel canto perché in fondo le sembianze della natura cosí bella, ma sostanzialmente cosí indifferente e cosí ostile a persone come Saffo, dotate di alto animo, ma prive della bellezza fisica, si raccordano con quello stesso «regno» che il «Padre» Giove (sempre piú cosí poco “paterno”, cosí effettivamente malvagio) ha dato «nelle genti» solo alle «amene sembianze» del bel corpo (vv. 50-52). Il “mondo” è un mondo di sembianze, d’inganni, in cui prevale l’apparenza sulla sostanza. E questa è una delle prospettive profonde che fin dall’inizio si deve seguire entro quella continua, acuta diagnosi negativa della situazione umana che si viene approfondendo in questa canzone.
Saffo rappresenta anzitutto quanto le è stato caro, dilettoso nella fanciullezza, finché «ignote mi fur l’erinni e il fato», finché le fu ignota la realtà della vita e cioè la cecità o la perversità del fato e le furono ignote le Erinni, cioè la drammatica passione amorosa, che s’esercita tanto piú negativamente su di lei, a causa di quella bruttezza fisica, che è ulteriore riprova della “non paternità” del «Padre» Giove, della cecità o della malignità del fato.
D’altra parte, questo accenno alle Erinni, legate al lacerante tormento amoroso, apre, in maniera estremamente cauta, parca, a un tema che verrà ripreso solo alla fine della canzone, con un procedimento che in qualche modo richiama l’esemplare procedimento della tragedia alfieriana, la Mirra, dove (anche se con un’altra prospettiva e motivazione) l’identificazione del preciso sentimento amoroso viene fatta solo alla fine della tragedia, viene come continuamente taciuta, velata, anche se essa anima con la forza della sua qualità peccaminosa elementi del linguaggio di Mirra anche quando essa non parla di amore.
Cosí, egualmente, qui si può notare che come un sottile sottinteso alla passione amorosa (tanto pertinente tra l’altro alla situazione particolare e generale di Saffo, «dispregiata amante» della natura) viene a circolare sottilmente e profondamente entro lo sviluppo della canzone (si pensi a quel passo della seconda strofa in cui si parla del «Candido rivo» che fugge di fronte a Saffo, con qualcosa che negli stessi aggettivi, le «flessuose linfe» e il «Lubrico piè» – vv. 33-34 –, sembra quasi portare una sottile, allusiva coloratura di carattere amoroso), per poi rivelarsi come motivo vero e proprio dell’amore per Faone solo verso la fine della canzone, che raccoglie potentemente e severamente tutti gli elementi del dramma di Saffo.
Questa prima parte della strofa trova poi il suo piú aperto contrasto con la situazione presente di Saffo, con i suoi disperati affetti che non possono trovare la consolazione di un sorriso da parte di uno spettacolo «molle» (che è già un altro modo con cui quello stesso paesaggio, inizialmente vagheggiato, viene riportato in una accezione piú limitativa e negativa entro la nuova situazione presente di Saffo), da cui scaturisce la violenta affermazione della sua attrazione per spettacoli della natura sconvolta e tempestosa.
Indubbiamente nella rappresentazione del paesaggio tempestoso si può avvertire una certa maggiore esuberanza di toni, una certa fosca enfasi, piú vicina alla base letteraria cui il Leopardi qui si rifà: quei soliti Canti di Ossian, in cui proprio gli spettacoli della natura tempestosa, in tensione, venivano legati anche con una specie di godimento, di piacere dell’orrido, degli spettacoli terribili, con una specie di piacere congeniale alle anime infelici.
La seconda strofa porta poi piú direttamente al centro del tema profondo della canzone, il tema della «dispregiata amante» della natura:
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta: e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge. (vv. 19-36)
Qui la poesia viene assumendo i suoi toni piú precisi e originali, a sviluppare i suoi motivi piú interni, quello appunto della «dispregiata amante», con un piú rapido ed efficace contrasto tra la riaffermazione del “bel” manto, del «divo» cielo, della «bella» terra «rorida» e l’impressione, la sicurezza di Saffo di essere esclusa assolutamente da questa bellezza.
Al tema della «dispregiata amante» consegue inevitabilmente il tema della denuncia, da parte di Saffo, del rapporto tra il suo caso personale di esclusa e la sorte e i numi che la hanno volontariamente o ciecamente esclusa, sicché la protesta di Bruto ritorna ad affiorare, nelle forme meno gridate, meno violentemente aggressive e tanto piú convincenti, attive poeticamente.
Si noti anche come nella costruzione di questa nuova strofa, il Leopardi sia venuto arricchendo la sua inventiva e sensibilità poetica, attraverso un ritmo che non si affida (come piú avveniva nelle canzoni precedenti) tanto alle rime, al giuoco tra endecasillabo e settenario, quanto a un ritmo piú interno, che tende in generale a costituire dei versi piú lunghi mediante l’arcatura fra verso e verso e le spezzature al centro di un verso, sí da costituire un discorso, tanto piú libero, tanto piú spontaneamente aderente ai moti supremi dell’animo del personaggio che il Leopardi vuole poeticamente esprimere. Si veda in proposito come egli possa con la semplice collocazione di una parola dare un’eco profonda al movimento e al significato della sua poesia: «Ahi di cotesta / infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo i numi e l’empia / sorte non fenno». Quel «nessuna» pone in estremo rilievo questo carattere di esclusione assoluta con la sua collocazione alla fine del verso e mostra appunto come il Leopardi anche con altri e coerenti accorgimenti stilistici sappia dare un fortissimo risalto agli elementi piú interni della sua poesia.
«A me non ride»: si noti che una delle caratteristiche di questa canzone, in analogia con certi atteggiamenti del Bruto minore, è il continuo passaggio (con a volte quasi una certa apparente ambiguità) tra il caso personale di Saffo, che costituirebbe una specie di “eccezione” legata a una situazione particolarissima, e il senso piú generale che se ne può ricavare. Se nel Bruto c’è sempre una prospettiva storica, che viene però continuamente come a superarsi in una prospettiva universale, tanto piú ciò avviene nell’Ultimo canto di Saffo, dove il caso personale è da una parte conferma di un’esperienza vissuta e dall’altra diventa simbolo di una condizione generale, esistenziale.
La terza strofa porta ancora avanti i motivi della denuncia e coerentemente la poesia viene acquistando come una sua intensità maggiore nello stesso linguaggio, nella sua ferma perentorietà, nel suo carattere piú essenziale, piú conciso e non enfatico, che è uno dei caratteri nuovi di questa canzone:
Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sí torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtú non luce in disadorno ammanto. (vv. 37-54)
La strofa esprime una diagnosi ferma e implacabile della sorte di Saffo (e tanto piú terribile, proprio nella sua mancanza di enfasi), ricollegata ai responsabili di quella sorte con espressioni che, a mano a mano che la strofa procede, vanno diventando sempre piú assolute, intense, drammatiche e insieme ferme, pudiche, antiretoriche.
A voler azzardare un passaggio da un fatto di linguaggio ai suoi motivi piú interni, il linguaggio sempre piú si adegua alla stessa essenzialità e assolutezza di una situazione dell’esistenza umana che non chiede piú ornamenti, formule enfatiche ed eloquenti.
È evidente che qui il Leopardi, nella serie delle domande e delle denunce dei lamenti di Saffo, è venuto addensando e svolgendo posizioni estreme, come quella, quasi paradossale, che ci si possa macchiare di un fallo, di un peccato addirittura in una zona prenatale, sicché poi appunto il cielo e il volto della fortuna dovessero essere cosí “torvi” rispetto a Saffo. E poi si noti la forza estrema dell’accordo di due parole in quel «peccai bambina», da cui risulta la paradossalità e quindi l’implicita protesta contro l’efferatezza del fato e dei poteri superiori; in che modo può “peccare” una “bambina” in un’età ignara di misfatto; che non solo non può compiere, ma di cui non può avere neppure coscienza? Sicché se sarebbe in qualche modo pur comprensibile che gli dei punissero una colpa, la prova della loro scelleratezza o sordità è data dal fatto che ogni radice di colpa è recisa, dato che Saffo non può presentarsi che come una vittima assolutamente innocente, “incolpevole”.
«Incaute [...] labbro»: a metà della strofa c’è questa battuta come d’arresto, come di controllo da parte di Saffo su se stessa, e quasi l’avvertimento suo della vanità di questi suoi lamenti. Perché, chi è tenuto a rispondere a essi? Sí, sarebbero tenuti a farlo certi poteri superiori, ma ella sa ormai dalla sua esperienza (che da caso personale s’innalza a caso universale), sa che non esiste alcuna comprensibile, spiegabile risposta: «i destinati eventi / move arcano consiglio. Arcano [...] dolor».
Dopo questa battuta che Saffo oppone al suo stesso bisogno di confessarsi e di lamentarsi, le parole che seguono diventano sempre piú essenziali, piú sobrie. E sembrano prospettarsi come poetiche sentenze di assoluta verità, con posizioni che il Leopardi poi verrà espandendo nei suoi pensieri, nelle sue opere poetiche (l’idea appunto che l’uomo conosce solo il proprio dolore, che l’uomo è nato solo per soffrire).
«Oh cure, oh speme»: attraverso anche il richiamo delle illusioni giovanili, su cui già si era impostata la prima strofa (cioè le dilettose e care sembianze della natura quando Saffo era ancora fanciulla) viene portato piú a fondo questo nuovo elemento di denuncia contro il «Padre», Dio o gli dei, secondo tutta una tradizione che va dal padre Giove e giú giú fino a tempi piú recenti. Il «Padre» qui è colui che agisce “non paternamente” e compie l’estremo inganno di dare nel mondo il regno, la forza, il successo solamente alle «amene sembianze», sicché le cose piú sostanziose, l’eroismo, le virili imprese e tutto quello che Saffo o uomini alti possono avere, non basta per appartenere al regno delle «amene sembianze» e la virtú non può risplendere in un «disadorno ammanto».
L’ultima strofa porta direttamente alla decisione del suicidio. Si è detto piú volte dalla critica: dov’è il suicidio nell’Ultimo canto di Saffo? Evidentemente, qui esso non è materialmente rappresentato, ma in questa prospettiva cosí intima di Saffo c’è la decisione del suicidio, che è tutta quanta identificata nella nudità della parola «Morremo»:
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perír gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni piú lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l’atra notte, e la silente riva. (vv. 55-72)
Questa strofa è il supremo risultato di una tensione poetica crescente. È chiaro che la poesia è andata approfondendosi nel suo stesso interno attrito e veramente questa ultima strofa la porta alla sua massima altezza, alla sua direzione piú profonda e ai suoi toni di linguaggio piú coerenti.
Dopo la parola della decisione del suicidio (che raccordava questa a tutta una lunga storia del suicidio nella poesia: c’è l’Ortis, c’è il Werther, ma dietro ancora c’è la Didone del quarto libro dell’Eneide, a cui una simile espressione sembra richiamare per il «moriamur» del personaggio virgiliano), tutto viene a chiarirsi ulteriormente.
«Il velo indegno [...] de’ casi»: la decisione sicura, ferma, a suo modo eroica (essendo il tipo di eroismo piú misurato, piú intimo di Saffo che sente con il suo gesto di correggere gli errori del fato cieco e crudele) permette la comparsa in primo piano di quel motivo a lungo sottaciuto, a lungo vibrante nelle allusioni amorose dei rapporti tra Saffo e la natura («dispregiata amante» ecc.): il motivo della sventurata passione per Faone, che arricchisce (tutt’altro che incoerentemente) la situazione di Saffo, il cui amore è stato non corrisposto a causa della sua bruttezza, è a sua volta conseguenza «del cieco / dispensator de’ casi»; cosí come la stessa frase adoperata per Faone («Vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal»), in quella luce di generosità, di magnanimità di Saffo che vuole essere superiore e diversa rispetto alla crudeltà del fato e degli dei anche in questo momento decisivo, porta a un’ulteriore diagnosi sulla situazione umana.
Si notino appunto le ricche implicazioni di una simile frase: «E tu cui lungo [...] mortal»: persino in questa frase Saffo trova come un ulteriore modo di risalire attraverso il suo atteggiamento di generosità (l’amato non ha corrisposto, ma ella in qualche modo gli augura una vita felice, quasi dissociandosi dalla crudeltà delle cose, della sorte) a una ulteriore forma di diagnosi della vita infelice degli uomini; «se felice in terra / visse nato mortal»: se pure è possibile la felicità per gli uomini, che nati per morire, non possono mai veramente essere felici.
«Me non asperse»: attraverso un ulteriore richiamo alla sua situazione di esclusa, che Giove non ha asperso con quel liquore della felicità di cui egli è cosí avaro con gli uomini, e attraverso questo poeticamente doloroso richiamo alla fanciullezza, la prospettiva si apre piú immediatamente in una forma di assoluta verità universale: «Ogni piú lieto [...] s’invola». I primi giorni che s’involano della felicità sono quelli della fanciullezza, che è il piccolissimo lembo di felicità concesso agli uomini e che fugge rapidissimamente. «Sottentra [...] morte»: qui il Leopardi ha trovato proprio la forza di far aderire la forma del linguaggio alle forme piú interne del suo pensiero poetico, scartando ogni ornamento inessenziale. Cosí il solo aggettivo della frase «l’ombra / della gelida morte» colora intensamente un’immagine che proietta su tutti gli uomini quest’ombra, che offusca, appanna ogni loro pensiero, ogni loro azione. A ciò basta quel «gelida» e tutta l’immagine sobria o severa vuole e sa tradurre la verità nuda di una situazione universale che Leopardi, attraverso il caso di Saffo, è venuto delineando e fermando nella sua poesia.
«Ecco di tante»: ecco di tutte le illusioni giovanili che cosa rimane? Il Tartaro, la morte e l’averno. E quest’ultimo paesaggio infernale, muto e squallido («atra notte», «silente riva» dell’Acheronte) è come una risposta poetica agli inganni delle «amene sembianze» del bel paesaggio iniziale. La verità è la morte, come dice il Leopardi stesso in una nota alla parola «Tartaro»: «Il Tartaro è forse una palma, o un error dilettoso? Tutto l’opposto, ma ciò appunto dà maggior forza a questo luogo, venendoci ad entrare una come ironia. Di tanti beni non m’avanza altro che il Tartaro, cioè un male. Oltracciò si può spiegare questo luogo anche esattamente, e con un senso molto naturale. Cioè, queste tante speranze e questi errori cosí piacevoli si vanno a risolvere nella morte: di tanta speranza e di tanti amabili errori, non esce, non risulta, non si realizza altro che la morte»[11].
La poesia evidentemente ha portato il ciclo del ’21-22 alla sua massima altezza e misura poetica e alle sue punte piú intimamente drammatiche. L’inno ai Patriarchi, scritto nel luglio 1822, rappresenta in un certo senso l’esaurimento della forza poetica leopardiana in questo periodo.
L’Inno ai Patriarchi è l’ultima canzone del ciclo ’21-22, e si presenta come un’estrema difesa del sistema leopardiano della natura, difesa che peraltro ha un carattere eccessivamente programmatico e volontaristico. È difficile ritrovarvi una reale tensione poetica. Essa si articola piuttosto come un ragionamento in difesa della santa natura: le posizioni assunte nel Bruto minore e soprattutto nell’Ultimo canto di Saffo erano ormai troppo interne al pensiero leopardiano per non influire anche su questa poesia. E cosí la difesa della natura deve essere ancora arretrata nel tempo per trovare un estremo lembo in cui raccogliersi e si viene a fermare nella prima età dell’uomo, fino ai tempi dei patriarchi, anche se in questa prima età rimane una contraddizione: la colpa di Caino infatti oscura la stessa età patriarcale.
Questa vita primitiva dei patriarchi viene esaltata come una vita inconsapevole e senza passioni, in contrasto con l’esaltazione della vita degli antichi che Leopardi aveva fatto in Alla Primavera, dove gli antichi erano esaltati per le loro poetiche illusioni e per il loro scambio di affetti con la natura. Qui invece il vagheggiamento assume un colore idillico, poiché è vagheggiamento di una vita puramente istintiva e troppo placida.
Certo il tema poteva comportare in Leopardi implicazioni profonde, come una fondamentale esigenza di autenticità, una ricerca a lungo perseguita di ciò che non ha ancora subito deformazioni. Ma in effetti in questo inno la difesa della natura e della vita patriarcale-naturale rimane troppo volontaria e programmatica, sa troppo di battaglia di retroguardia. La concezione piú drammatica dell’Ultimo canto di Saffo si contrappone all’esaltazione di questa zona piú intatta della vita dei primi uomini biblici e sembra che il Leopardi voglia persuadere anzitutto se stesso, sicché alla poesia manca un taglio sicuro, il fluire del motivo, la forza di un ritmo ed essa si presenta piuttosto come sutura di scene giustapposte.
Il poeta in questo caso si appoggia troppo direttamente, e con troppa meccanicità a un abbozzo del ’22[12]. Per i raccordi di questa canzone col pensiero leopardiano si può indicare un pensiero del 9-15 dicembre 1820 dello Zibaldone in cui il Leopardi spiega certi aspetti del suo sistema riportandoli ad aspetti del cristianesimo e fra l’altro insistendo sul fatto che un elemento fondamentale dell’accordo tra il suo sistema e il cristianesimo è la comune indicazione della corruzione dell’uomo: la colpa delle miserie umane è attribuita all’uomo che ha abbandonato la natura, corrompendo cosí se stesso[13]. Ma questo punto di vista diviene sempre piú inconciliabile con quelle posizioni leopardiane fondamentali che si vanno maturando in poesia (Bruto minore, Ultimo canto di Saffo) e che sempre piú insistono sulla incolpevolezza dell’uomo. Anche l’esaltazione finale di uno stato primitivo e della vita dei selvaggi delle «californie selve», cui scelleratamente gli europei (magari attraverso i missionari, come è detto nell’abbozzo in prosa del ’22) vogliono portare il dubbio dono della civiltà, si cambierà presto nella diversa posizione rintracciabile nell’operetta morale La scommessa di Prometeo, dove i selvaggi cannibali vengono guardati solo sotto una luce di orrore.
Il componimento presente si ricollega in realtà, attraverso lo schema del ’22, a un primo abbozzo precedente, compreso tra gli abbozzi ricordati di Inni cristiani, e cosí rimanda a una tematica che il Leopardi intendeva tradurre in poesia, ma che lasciò irrisolta mostrando che la stesura dell’inno è legata, per cosí dire, a uno stato ambiguo. Infatti quegli abbozzi di inni cristiani (genere tipico della Restaurazione e del neocattolicesimo di quell’epoca, di cui fu interprete soprattutto lo Chateaubriand, col suo Génie du Christianisme) comportavano per il Leopardi la scelta di temi assunti dall’esterno. La religione in questi inni è sentita o come matrice di poesia per la sua novità, e quindi come qualcosa di poeticamente utilizzabile, oppure è legata ad altri motivi, ad esempio al motivo patriottico.
L’ambiguità di questa impostazione si riflette anche nell’Inno ai Patriarchi. L’elaborazione dell’inno fu lunga (anzi è la piú complicata, la piú ricca di varianti e correzioni di tutti i Canti) e ne riuscí un componimento di alta fattura tecnica, un decoroso esercizio di stile.
Il canto si presenta opaco e meccanico e il metro stesso, l’endecasillabo sciolto, è qui espositivo e didascalico, lontano dal carattere tipicamente lirico della poesia leopardiana. La lirica è costruita con passaggi meccanici e presenta una specie di successione di quadri, senza possibilità di costruire un compiuto componimento poetico.
Per questa poesia si è tratti a ricorrere a un gusto antologico, e a isolarne certi passaggi: Adamo, la terra misteriosa, o il vagheggiamento della quiete dei primi patriarchi presso i loro pozzi. Ma anche ricorrendo a tale gusto antologico, si deve dire che questi singoli brani non riescono a essere espressione di un nucleo centrale unitario. Inoltre vi sono forti squilibri di tono; si passa da toni piú esasperati e drammatici (come la descrizione dell’averno che viene a occupare la terra: «e violento / emerse il disperato Erebo in terra», vv. 20-21) a toni preziosi, quasi compiaciuti e rispecchianti lontani atteggiamenti di fattura pariniana («e delle antiche / nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo, / l’atro polo di vaga iri dipinse», vv. 62-64) che mal si conciliano insieme.
Con l’Inno ai Patriarchi, con cui Leopardi aveva come esaurito la grande forza poetica espressa nel ciclo delle canzoni, si chiude il formidabile periodo 1821-22.
1 Tutte le opere, I, pp. 12-13.
2 Per le varianti di Alla Primavera cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., pp. 252-272.
3 Tutte le opere, I, pp. 14-15.
4 Tutte le opere, II, pp. 219-220.
5 Cfr. Premessa all’Ultimo canto di Saffo, in Tutte le opere, I, p. 76, e Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824, in Tutte le opere, I, pp. 56-57.
6 Come fu già accennato in W. Binni, Preromanticismo italiano, Firenze, Sansoni, 1984 (1985²), e prima Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1947, poi Bari, Laterza, 1974; e come fu largamente esposto da Carlo Muscetta nel saggio «L’ultimo canto di Saffo», «La Rassegna della letteratura italiana», n. 2, 1959, pp. 194-218 (poi in Id., Ritratti e letture, Milano, Marzorati, 1961, pp. 230-261, quindi in Id., Leopardi. Schizzi, studi, letture, Roma, Bonacci, 1976, pp. 49-91, e ora in Id., Per la poesia italiana. Studi, ritratti, saggi e discorsi, I, Da Dante a Leopardi, Roma, Bonacci, 1988, pp. 215-247).
7 A. Verri, Le avventure di Saffo, a cura di L. Martinelli, Ravenna, Longo, 1975, Lib. 1, cap. 8.
8 Ivi, Lib. 1, cap. 10.
9 Ivi, Lib. 1, cap. 8. Cfr. in proposito ancora W. Binni, «Leopardi e la poesia del secondo Settecento» cit., e C.F. Goffis, «Titanismo e frustrazione in due romanzi di Alessandro Verri», «La Rassegna della letteratura italiana», n. 2-3, 1964, pp. 341-364.
10 Nel romanzo, Saffo si accinge al famoso salto di Leucade (che poteva guarire da una passione amorosa o portare alla morte) in una condizione di empietà e di incredulità e perciò il suo gesto fu effettivamente un suicidio e non punizione divina per una colpa.
11 Cfr. Premessa all’Ultimo canto di Saffo cit.
12 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 74-76.
13 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 146-153.